Intervista a Stefano Vella, docente di Salute Globale all’Università Cattolica di Roma.
A Durban venne anche Nelson Mandela, e fece la differenza
Stefano Vella, medico infettivologo e scienziato di fama internazionale, è stato, fra l’altro, presidente dell’Ias – International Aids Society e direttore del Centro per la Salute Globale presso l’Isitituto Superiore di Sanità.
Nella tua esperienza personale quando avviene l’incontro con l’Aids?
Nel 1981, nei giorni in cui fu descritta per la prima volta una patologia “nuova”, mi trovavo per lavoro a Filadelfia. È lì che ho cominciato a capire che questa malattia era probabilmente trasmissibile per via sessuale. In qualche modo, è stato l’“imprinting” per la mia vita di medico e ricercatore. Tornato in Italia, ho iniziato a lavorare con tanti colleghi per capire come arrestarla. Per tanti anni un po’ invano. Avevamo strumenti “spuntati” che servivano soltanto a combattere, temporaneamente, le molte infezioni opportunistiche. Ci son voluti anni, circa dieci, per arrivare a sperimentare i nuovi farmaci specifici che col tempo son stati perfezionati e hanno permesso di abbattere la replicazione dell’Hiv e, in un certo senso, cronicizzare una infezione che nel decennio precedente era considerata inevitabilmente fatale. Ricordo con grande emozione quando, con molti colleghi americani, ho presentato le Linee Guida che hanno cambiato la storia naturale dell’infezione da Hiv. Era il 1996, a Vancouver. Da quel momento in poi, almeno nei Paesi che potevano affrontare i costi di queste terapie, la vita di tante persone portatrici del virus è cambiata, e la loro aspettativa di vita è oggi comparabile a quella delle persone senza Hiv.
Qual era la situazione dell’Aids in Africa prima che tu decidessi di organizzare la conferenza di Durban?
Nella mia vita ho avuto molti privilegi. Uno di questi è stato quello di essere stato eletto presidente dell’International Aids Society, la società scientifica che, tra le altre cose, organizza le grandi conferenze mondiali, alle quali partecipano oltre ventimila delegati. Come presidente, ho cominciato a girare il mondo, soprattutto l’Africa. Lì ho potuto capire dov’era davvero il problema e cosa voleva dire disuguglianza. Qui, nei Paesi più ricchi, finalmente era difficile morire di Aids, mentre lì morivano a milioni. Allora, così, per dare una scossa, con altri colleghi che la pensavano come me, ho deciso di spostare la conferenza lì, nell’epicentro dell’Aids, in Sudafrica nel 2000. Pensarono che ero pazzo, che sarebbe stato un disastro, che non sarebbe venuto nessuno per paura (il Sudafrica a quei tempi non era un Paese tanto sicuro). Invece, fu un successo straordinario. Vennero tutti, ricercatori, medici, grandi politici, capi di stato, e soprattutto vennero i pazienti, da tutto il mondo. E 1300 testate giornalistiche! E poi, è venuto Nelson Mandela, che ha fatto la differenza. Il mondo capì, l’anno dopo andammo alle Nazioni Unite, nacque il Global Fund e riuscimmo a superare il problema dei brevetti. Oggi milioni di persone nel mondo più povero hanno accesso agli stessi farmaci che abbiamo qui.
Quali sono i progressi fatti negli ultimi 20 anni e quali ancora gli ostacoli da rimuovere?
Progressi ne sono stati fatti tantissimi. Per esempio la semplificazione della terapia, dalle 28 pillole iniziali a una pillola al giorno. Fino ai farmaci long-acting. E fino al concetto di “treatment as prevention”, che ha portato a capire che se una persona prende i farmaci antiretrovirali e la sua carica virale è azzerata, non trasmette il virus al partner. Fino alla Prep, cioè alla profilassi pre-esposizione. Ostacoli ce ne sono purtroppo moltissimi. Soprattutto perché le persone più marginalizzate e discriminate non sono raggiunti dalle cure. Anche perché il rispetto dei diritti umani, in troppi Paesi calpestati, va di pari passo con prevenzione e cura.
Sei un medico che ha sempre dialogato con la società civile. Secondo te esiste ancora mobilitazione efficace su questi temi?
La società civile ha avuto un ruolo straordinario nella battaglia per l’accesso alle cure. L’Aids è stata forse la prima e unica malattia nella quale la società civile e le associazioni di pazienti hanno stimolato la ricerca, controllato l’eticità di quello che si stava facendo, e avuto un ruolo decisivo nelle decisioni del cosiddetti “grandi della terra”.
[testo raccolto da Barbara Bonomi Romagnoli]